Ottimo articolo di Wired anche se arriva quasi un mese dopo la realizzazione dei fatti recenti, comunque il particolare sull’estrusore sbagliato di Makerbot è da sottolineare. Ma la nostra senzazione è invece che il mercato si stia caricando come una molla per esplodere

La crisi della stampa 3D
makerbot replicator z18Le prospettiva di crescita restano alte, ma la tecnologia non ha ancora conquistato il mondo. Anche l’azienda-simbolo, MakerBot, è costretta a reinventarsi

Come sta la stampa 3D? Non tanto bene. Da un po’ di anni esperti del settore, giornalisti e maker casalinghi aspettano che la next big thing diventi davvero big: nonostante previsioni di crescita che lo proiettano a un valore di 20 miliardi di dollari all’anno nel 2019, il mercato nel 2014 valeva 3,3 miliardi di dollari e si assesterà intorno ai 5 nel 2015 (dati di Canalys). Non molto, per una tecnologia che avrebbe dovuto cambiare il mondo in un lampo.

La stampa 3D sembra pronta a decollare definitivamente, ma in questo momento attraversa una fase di stanca, complice una serie di pastoie: costi non ancora veramente abbordabili per le masse (in particolare quelli dei materiali), qualità di stampa in molti casi troppo approssimativa, limiti di interesse (quante e quali cose posso essere davvero interessato a stampare nella mia vita quotidiana?) e una certa oscurità culturale che circonda questo mondo, al di fuori della cerchia tecnologica. Il potenziale è enorme, eppure finora non è esploso come si prospettava qualche anno fa.

Se poi finisce in crisi anche MakerBot, l’azienda guida del settore fondata nel 2009 e cresciuta in modo esponenziale sull’onda dell’entusiasmo, è indice che qualcosa non va. Come racconta un articolo apparso su Motherboard, l’azienda ha chiuso tutti e tre i suoi negozi fisici e un paio di divisioni interne, ha tagliato il 20% dei dipendenti e ha ridimensionato le prospettive e i piani di crescita per i prossimi anni.

Qui però la questione è più complessa, perché MakerBot sta pagando la reazione negativa dei clienti e della stampa causata dagli estrusori difettosi del modello di punta Replicator (3mila euro di stampante, mica poco). E sta inoltre affrontando un faticoso riassetto per integrarsi nelle politiche interne di Stratasys, il colosso che l’ha acquistata nel 2013. Nell’ultimo anno è andato in scena un balletto di CEO: il fondatore Bre Pettis è stato rimpiazzato da Jenny Lawton nel 2014, rimpiazzata a sua volta nel 2015 dall’attuale Jonathan Jaglom. Ed è a lui che Motherboard ha rivolto qualche domanda per capire dove sta andando la sua società.

Jaglom, l’uomo che ha preso la decisione dei licenziamenti e della chiusura dei negozi, ha ammesso che “il mercato non era grande come pensavamo due anni fa“. I suoi predecessori ci hanno provato, lanciandosi impavidi alla ventura, e oggi ne pagano lo scotto. Lo scopo quindi è finire di smaltire le pesanti conseguenze dell’estrusore-gate e trovare una nuova direzione per MakerBot, che il CEO vuole indirizzare sempre di più verso il settore professionale e quello dell’educazione (in particolare i laboratori universitari).

Ma nell’arco di un quinquennio punta anche a realizzare un digital marketplace, nel quale aziende o singoli designer possano caricare progetti per stampe 3D da vendere ai clienti finali, che possono a loro volta scaricarli a pagamento e realizzare in casa parti di ricambio oppure oggetti “di marca”. Ci vorrà tempo, dice Jaglom, convinto però che il marketplace di MakerBot diventerà “l’iTunes della stampa 3D”.

Nel frattempo avremo tutti una stampante in casa, o la seminuova frontiera del fai-da-te sarà ancora affare per pochi?

Martino de Mori da wired.it

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