Il momento in cui business e comunità si divaricano
MakerBot, estrusione di brevetti?
La community della stampa 3D denuncia l’appropriazione da parte dell’azienda di certe tecnologie condivise affinché costituissero bene comune, da studiare e rielaborare. La filosofia open è stata tradita dalle logiche industriali?
Roma – La condivisione è da sempre stata alla base del progetto MakerBot e della sua evoluzione, una condivisione incoraggiata dalle licenze open che da tempo caratterizzano molte delle tecnologie su cui si basa il filone della stampa 3D “domestico”, che si è sviluppato in parallelo a quello del mercato industriale. La community, però, è in tumulto: MakerBot ha depositato dei brevetti che ricalcano dei progetti degli utenti. Progetti condivisi affinché tutti, e non solo un’azienda, potessero studiarli, migliorarli, adattarli alle proprie esigenze e beneficiarne.
La community che si addensa intorno alle tecnologie della stampa 3D è da anni catturata nel circolo virtuoso che accompagna l’adozione dei dispositivi, l’abbassamento dei loro prezzi e la floridezza dell’offerta: sono numerosi i progetti di stampanti nati da iniziative di crowdfunding, si affollano i progetti condivisi dagli utenti. Proprio su questa base è nato il progetto open source e open hardware RepRap, con l’obiettivo di creare una stampante 3D che sapesse crescere e autoreplicarsi con componenti stampate autonomamente, proprio con questa filosofia MakerBot si è affacciata sul nascente mercato della stampa 3D, invitando a popolare spazi come Thingiverse, piattaforma di condivisione per progetti da creare con le stampanti 3D e per le stampanti 3D.
Dal 2009, anno di fondazione dell’azienda, MakerBot ha sensibilmente aggiornato la propria posizione sul mercato: se nel 2010 figurava fra i paladini del movimento Open Source Hardware, aderendo ad una licenza estremamente permissiva, capace di incoraggiare il fluire della creatività, nel 2012 il CEO Bre Pettis interveniva per difendere il proprio diritto a fare del business in un alveo open. Nel 2013, infine, il colosso Stratasys ha messo le mani su MakerBot. Per quella che è nata e cresciuta come una iniziativa imprenditoriale open, giunge probabilmente il momento di abbracciare dinamiche industriali e di business consolidate e tradizionali.
MakerBot ha dunque iniziato a depositare dei brevetti. Non si tratterebbe semplicemente di un modo per proteggere la proprietà intellettuale alla quale si è lavorato e sulla quale si è investito, tradendo i principi che hanno alimentato la nascita e la crescita dell’azienda. La community ha interpretato la mossa di MakerBot come un tradimento perché i brevetti ricalcherebbero dei progetti creati dagli utenti, e condivisi su Thingiverse perché chiunque potesse trarne vantaggio. Makerbot sembra invece voler riservare per sé i vantaggi legati alla paternità delle tecnologie.
Si tratta in particolare di un brevetto dedicato al livellamento automatico del piano di stampa e di un brevetto che descrive un dispositivo per l’estrusione rapida. Entrambi i titoli per cui MakerBot ha fatto richiesta ricalcherebbero dei rispettivi design e progetti portati avanti dalla community, descritti dai loro sviluppatori con la dovizia di particolari e le licenze necessarie perché altri potessero riusarli e migliorarli.
MakerBot, invece, se ne sarebbe appropriata facendo richiesta per dei brevetti, in barba allo stato dell’arte e in barba alle licenze Creative Commons che tutelano questi progetti dai tipi di sfruttamento indesiderati.
A seguito del rumoreggiare di una community intimorita da un aggressivo dilagare delle abitudini che vigono nell’industria della proprietà intellettuale, l’azienda è intervenuta per chiarire la propria posizione. Le precisazioni abbondano: uno dei brevetti ancora in attesa di approvazione, quello che descrive il sistema di estrusione rapida, sarebbe maturato in seno all’azienda prima dei progetti condivisi dalla community. Si spiega poi di non avere mai fatto mistero dell’intenzione e della pratica del depositare brevetti: “È un aspetto degli affari nel mondo della proprietà intellettuale che non consideriamo ottimale – si giustifica il CEO nella nota – ma è quello che facciamo in qualità di azienda che vuole essere competitiva”.
L’azienda, che assicura di voler ottenere dei brevetti “solidi, basati sul nostro lavoro”, ricorda che il sistema brevettuale statunitense accoglie le rimostranze e le segnalazioni di coloro che sono a conoscenza della prior art che renderebbe vana la richiesta di brevetto: l’invito formulato dall’azienda è stato anticipato da coloro che popolano la community della stampa 3D.
Gaia Bottà da punto-informatico.it