retinaProve di stampa 3D per le cellule della retina
Per la prima volta stampate in 3D cellule della retina: una cura futuribile per la cecità

L’ultima novità a proposito di bio-stampa in 3D arriva dall’Università di Cambridge, dove per la prima volta i ricercatori sono riusciti a stampare cellule della retina: cellule gangliari retiniche, che trasmettono informazioni dall’occhio ad alcune parti del cervello, e cellule gliali, che forniscono supporto e protezione per i neuroni, derivate dalla retina dei ratti. Dimostrazione che anche le cellule del sistema nervoso centrale possono essere stampate. Per farlo però i ricercatori hanno utilizzato una sofisticata stampante a getto d’inchiostro piezoelettrica, in grado di espellere le cellule attraverso un ugello di diametro inferiore al millimetro, in seguito a uno specifico impulso elettrico.
Certo si tratta di studi preliminari, come affermano gli stessi autori della ricerca pubblicata su Biofabrication, e la strada da percorrere è ancora lunga, ma un domani questa via potrebbe portare proprio alla produzione di innesti di tessuto artificiale in grado di riparare la retina e curare la cecità. «La perdita di cellule nervose della retina –  infatti –  è comune a molte malattie oculari che portano a cecità» spiegano i co-autori dello studio Keith Martin e Barbara Lorber, dell’Università di Cambridge.  «E la retina è una struttura molto complessa, organizzata con una disposizione precisa delle cellule, la cui relazione è fondamentale per un’efficace funzione visiva».
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«L’idea quindi è quella di costruire delle strutture che contengano cellule intrappolate al loro interno, decidendo esattamente quali cellule devono stare vicine e interagire fra loro» spiega a Linkiesta Monica Soncini, ricercatrice presso il Dipartimento di Bioingegneria del Politecnico di Milano. «Nel realizzare queste strutture si cerca di imitare il più possibile le strutture presenti in natura, che sono molto complesse e non replicabili con le normali strutture di supporto che si usano in laboratorio, come i piatti bidimensionali. La stampa 3D invece permette di fabbricare innesti di cellule, che possono essere impiantati e si interfacciano con il corpo umano. Ma i tempi sono molto lunghi. Mancano ancora ulteriori studi in vitro,  trial sul modello animale, e infine sull’uomo. Un altro passo avanti sarà provare a combinare diverse tipologie cellulari, per creare strutture più complesse di quelle che sono state fatte in questo lavoro dell’Università di Cambridge. Un lavoro ancora molto lungo, totalmente di ricerca di base».
Lo studio dei ricercatori di Cambridge però rappresenta un progresso importante, soprattutto dal punto di vista tecnologico. Le cellule del sistema nervoso centrale, infatti, sono molto delicate, e possono distruggersi durante il processo. Il sistema usato a Cambridge, però, ha dimostrato di non aver alterato le cellule. «Il problema della stampa tridimensionale o di tecniche analoghe – continua Soncini – è che durante la deposizione delle cellule su substrato vengono applicate delle deformazioni elevate che possono causare la rottura della membrana cellulare, e la morte della stessa cellula. La stampante piezoelettrica utilizzata in questo caso però, ha permesso un controllo fine del processo, che ha evitato danni alle cellule, e controllato con precisione anche la fase di deposizione. Due punti non sempre attuabili con tutti i dispostivi».
Per verificare che tutto fosse andato a buon fine, una volta stampate, le cellule sono state sottoposte a dei test in laboratorio per valutare quante fossero sopravvissute e se avessero mantenuto la capacità di sopravvivere e crescere. E i risultati sono stati molto positivi: «Sostanzialmente non ci sono state differenze di comportamento tra le cellule stampate in 3D e cellule analoghe depositate con tecnica standard (poste cioè su un substrato con pipetta)» afferma Soncini. «Questa è stata la prima verifica, ma sono necessari altri test che verifichino ulteriori dettagli, come per esempio la modifica del fenotipo».
Intanto a Cambridge Keith Martin pensa già di estendere questo studio ad altre cellule della retina, e capire se anche i fotorecettori sensibili alla luce possono essere stampati con successo utilizzando la stessa tecnologia.
Ma che cosa ha di particolare una stampante piezoelettrica? «È come quando schiacciamo il tubetto del dentifricio per fare uscire la goccia – risponde Monica Soncini – un conto è farlo a mano o avere un pistone che lo fa, un altro è avere un sistema a regolazione fine. Il piezoelettrico è proprio questo: consente di avere un sistema di regolazioni preciso sulla spinta che dà origine alla goccia, consentendoci di regolarne forma, velocità di fuoriuscita e posizionamento. Ci permette in pratica di far avvenire lo sgocciolamento in un modo furbo e controllato, evitando forti deformazioni sulla cellula. Inoltre questo tipo di stampante può essere utilizzato senza produrre un elevato innalzamento della temperatura, che produrrebbe un effetto negativo sulle cellule».
Al di là di questa ricerca però i tessuti riprodotti in laboratorio finora sono diversi. A iniziare da vasi sanguigni, pelle e cartilagini. Queste ultime sono usate per risolvere problemi alle ginocchia: «Il tessuto è stato realizzato con l’utilizzo di una base porosa di nanofibre polimeriche, durevole e biologicamente attiva, su cui la stampante 3D deposita strati successivi di gel naturale e una soluzione di cellule cartilaginee» scrive Marina Dimattia su “La nuova frontiera delle stampanti 3D, dalle protesi ai tessuti umani”. «Tale composto, un mix tra naturale e artificiale, una volta impiantato, sviluppa entro otto settimane le proprietà e le caratteristiche della cartilagine vera». Mentre da tempo i ricercatori Wake Forest Institute for Rigenerative Medicine stanno provando a stampare in 3D un rene.

In collaborazione con RBS-Ricerca Biomedica e Salute

Cristina Tognaccini da linkiesta.it

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