Quando carne e latticini saranno vegani
Dopo l’hamburger sintetico si lavora anche per avere latte, formaggio e pesce in provetta. Persino la pelle delle nostre scarpe, presto, potrebbe essere vera, ma vegan.
Mangereste prodotti animali cresciuti in laboratorio? Io sì. La nuova frontiera del cruelty free potrebbe arrivare al grande pubblico tra una ventina d’anni, e non comprenderebbe solo hamburger con carne sintetizzata in laboratorio (ricordate? Ne abbiamo parlato qui), ma tutti o quasi i prodotti di origine animale: dal latte al pesce, fino alle vera pelle che però non avrebbe nulla a che fare con l’uccisione di animali. Un po’ il sogno di molti vegani e di chi, come me, è onnivoro, ma anche molto sensibile al problema ambientale, ed etico, che circonda i prodotti di origine animale. E non dobbiamo essere in pochi se – come ha stabilito un recente sondaggio dello Humane Research Council americano (un’associazione a difesa degli animali) – solo una persona su cinque resta vegetariana a lungo, almeno negli Usa: il 53% rinuncia dopo un anno, e il 30% addirittura dopo appena tre mesi. Anche Anne Hathaway ha da poco annunciato di non essere più vegana perché la dieta priva di derivati animali, ha detto, la indeboliva troppo.
L’hamburger sintetico mi ha trovato quindi entusiasta: è la promessa di un mondo libero dalle brutture degli allevamenti intensivi, ma anche alleggerito del peso (enorme) delle emissioni inquinanti e del consumo di materie prime legate alla produzione di carne. Qualche esempio per render l’idea: per avere un hamburger “tradizionale” serve più energia di quella necessaria a caricare completamente 7 iPad. Gli allevamenti generano il 18% del totale delle emissioni inquinanti. Nel 2050 la richiesta di carne aumenterà del 70% (dati Fao).
Ma veniamo al dunque. Hamburger a parte, due bio-ingegneri stanno lavorando a San Francisco al latte sintetico, con un progetto che simpaticamente si chiama Muufri (senza mucca). Se lo darei a mia figlia? Beh, forse no. Sicuramente aspetterei qualche anno in più e la conferma scientifica che sia effettivamente ineccepibile dal punto di vista nutrizionale. Ma gli ideatori Perumal Gandhi and Ryan Pandya hanno dichiarato che è l’alimento ideale da fare in provetta, perché molto semplice: è composto per gran parte di acqua e da circa una ventina di altri componenti. Per produrlo hanno coltivato il DNA delle mucche in cellule di lievito, e sperano di riuscire anche a migliorarlo e a renderlo più sano, ad esempio aggiungendo grassi di origine vegetale “aggiustati” per garantire l’identico profumo e l’aroma del vero latte. I due, vegani convinti, pensano di commercializzarlo entro il 2017.
Un sistema simile è sfruttato per creare il “real vegan cheese”, non un sostituto del formaggio, ma vero formaggio che non ha nulla a che fare con gli animali (se non appunto il Dna, che come noto si può estrapolare in modi molto poco invasivi).
Profondamente corretta da un punto di vista etico è anche la pelle cresciuta in laboratorio per farne scarpe e poltrone. Modern Meadow estrae cellule animali con piccole escissioni chiamate “punch”, paragonabili a un piccolo taglio della pelle, per poi farle crescere artificialmente. L’effetto a strati della pelle “vera” è ricreato grazie alla stampa 3D “bio-printing”. Quel che mi sembra ancora più utile è il fatto che – essendo creata artificialmente – questa pelle non ha bisogno dei trattamenti chimici molto inquinanti a cui si sottopone la pelle animale per eliminare le imperfezioni. Di qui, arrivare alla vera pelliccia fatta in laboratorio potrebbe essere il passo successivo, e segnerebbe la fine di una lunga battaglia tra moda e animalisti.
Al pesce creato in laboratorio, da ultimo, ci sta lavorando la Nasa da oltre una decina d’anni, in origine con l’obiettivo di fornire un alimento adatto agli astronauti, oggi per soddisfare le esigenze di una crescente consapevolezza ambientalista e alimentare. Per quanto mi riguarda, sarebbe una rivoluzione: i livelli di mercurio e micro-plastiche trovati nel pescato (o la possibile presenza di ormoni in quello allevato), sommati al depauperamento dei mari, mi hanno da tempo convinto a eliminare (o quasi) il pesce dal mio piatto, e volentieri inizierei da qui la mia nuova esperienza culinaria “in vitro”.
da wired.it Michela dell’Amico