Negroponte: ecco come vivremo tra 10 anni
Ogni rivoluzione ha un suo ideologo. Quella digitale non fa eccezioni. Ed è davvero difficile evitare di associare Nicholas Negroponte, fondatore del Media Lab del Mit, a questa primogenitura teorica. La mise per iscritto in Essere digitali, nel 1995 un manuale di istruzioni per il futuro. E un manifesto da cui oggi è arduo scegliere i passaggi più profetici. La scelta, alla fine, cade su questa intuizione: “L’informatica non si occupa più di computer ma della vita. I bit, il dna dell’informazione, stanno rapidamente rimpiazzando gli atomi come materia prima di base dell’interazione umana”. Da calcolatori a strumenti di comunicazione. Dalla matematica alle lettere. Dalle astrazioni della tecnica alla vita pulsante. Alcuni dei suoi azzardi, all’epoca, ci sembravano colpi di teatro. Invece, se non la tempistica, la sostanza era giusta. Per ciò oggi siamo tornati da lui per un bilancio sui due decenni trascorsi e una previsione sul prossimo. “Se dovesse sopravvivere solo una frase dalla nostra conversazione voglio che sia questa” risponde tra un aereo e l’altro: “La connessione è un diritto umano. Ogni essere umano, in quanto tale, dovrebbe avere accesso a internet”.
A vent’anni dal suo libro seminale di quali sue parti è più orgoglioso?
Direi l’obbedienza pedissequa con cui il futuro si è dispiegato dopo la sua pubblicazione. Ma non è stata una sorpresa. E il motivo è semplice: il libro non era una previsione, ma un’estrapolazione da ciò che stava succedendo all’epoca. Non è stato così difficile quindi prendere quelle attività e proiettarle nel futuro.
Tra le cose che si sarebbero smaterializzate incluse i libri. Ora gli ebook sono una realtà: le piacciono? E quali altre evoluzioni immagina per la lettura?
L’incarnazione del testo come softcopy, ovvero la sua versione non stampata (il contrario di hardcopy), trasmissibile e malleabile è stata realizzata bene su vari apparecchi ed è destinata a restare con noi a lungo. I prossimi passi riguarderanno più la scrittura che la lettura. Una storia, in futuro, potrà avere più a che fare con un modello narrativo che con una modalità espressiva. E quel modello sarà usato per generare, in maniera personalizzata grazie al software, un film, un audio, un’animazione, un testo o qualsiasi altra cosa. Magari una pillola.
Un altro suo cavallo di battaglia era l’interfaccia uomo-macchina. Battere su una tastiera le sembrava innaturale. Il touch, che lei aveva invocato in tempi non sospetti, ora è ubiquo. Intravede altri sviluppi?
L’interazione touch è ormai realizzata assai bene. Forse potrebbe diventare ancora più affidabile e di certo meno costosa da realizzare. Il prossimo passo potrebbe essere un apparecchio che riconosce i gesti voluti e quelli compiuti per errore, come quando si aprono applicazioni che non volevamo aprire e così via. Ma la parte che davvero mi lascia senza parole, e che mi sembra abbia molto a che fare con l’arrogante recalcitranza della Apple, è la limitatezza della correzione automatica. Anche questa è personalizzabile e bisogna migliorarla il prima possibile.
A proposito di Apple, per la prima volta le vendite dei suoi iPad sono diminuite e c’è chi scommette che faranno la fine dei pc e punta piuttosto sui phablet, un ircocervo a metà strada tra un telefono e un tablet. È questo il futuro della specie?
Ogni situazione richiede una dimensione diversa e appropriata. Se stai rivedendo dei progetti di architettura intorno a un tavolo con cinque persone, allora andrebbe bene un tablet da 24 pollici. Che però non puoi portarti dietro mentre scii. La domanda più giusta, quindi, è quale misura va bene per la maggior parte delle situazioni. Per quanto mi riguarda, parlando di prodotti appena usciti, io passerò all’iPhone 6 Plus in questi giorni. Spero di riuscire a usarlo più come un tablet che come telefono. Tutti a chiedersi se è troppo grande, ma è un dibattito piccino, di marketing. E anche un po’ stantio, dal momento che Samsung fa apparecchi così grandi da tempo.
Sebbene non voglia chiamarla così, la sua profezia principale fu quella di capire che “tutto ciò che avrebbe potuto essere digitalizzato lo sarebbe stato”. È andata così ma alcuni critici, come il tecnologo Jaron Lanier e gli economisti Brynjolfsson e McAfee, sostengono che questo trasloco di massa dagli atomi ai bit abbia impoverito la classe media, distruggendo più lavori di quanti ne abbia creati. Cosa risponde?
Lanier è troppo auto-referenziale e con i piedi non abbastanza per terra. McAfee e il suo socio hanno uno sguardo più equilibrato al fenomeno. La stessa tecnologia che criticano è utilizzata per imparare meglio e costruire così una società con maggior resilienza anche di fronte agli sconvolgimenti del mondo del lavoro. In questo dibattito immagino anche esiti paradossali, come il protestare contro le auto senza pilota per far sì che gli autisti di Uber continuino ad avere di che campare. Ma anche questi ultimi sono visti come distruttori dello status quo dei tassisti. insomma, tutto è relativo.
Lei coniò anche il concetto di daily me, il giornale personalizzato dall’algoritmo, a immagine e somiglianza del lettore. Google News gli assomiglia molto ma oggi, in Spagna, Google minaccia di cancellare il servizio se il governo insisterà con la pretesa di condividere un po’ dei profitti di Mountain View con i giornali che producono le notizie linkate. Che impressione le fa?
Mi sembra un’idea assai bizzarra. Google genera così tanto traffico verso quei siti che, da parte loro, pretendere anche una parte dei proventi del motore di ricerca mi parrebbe altrettanto folle dello scenario in cui fosse Google a pretendere un po’ dei profitti realizzati dai siti che linka.
In Essere digitali prefigurava anche la possibilità di micropagamenti. Non più giornali comprati in blocco ma à la carte, magari pagando solo per gli articoli del giornalista preferito. Lo stesso poteva applicarsi ad altri servizi. Perché non hanno attecchito?
Riformulerei la sua domanda: perché non hanno ancora attecchito? E le ripeto ciò che pensavo allora: attecchirà. Comprare la musica a brani anziché ad album è ormai normale. Lo sarà presto anche per i giornali. E anche per l’editoria in senso più ampio, con sempre più persone che si pubblicheranno da soli.
Parlando di futuro, e riagganciandoci all’anniversario del nostro Domenicale, quali principali sviluppi immagina per i prossimi dieci anni?
I veri grandi cambiamenti saranno nella biotecnologia, specialmente all’intersezione tra microelettronica e biologia. Man mano che riusciamo a produrre chip sempre più minuscoli realizzare robot che possano vivere nel nostro sistema sanguigno, eliminando tutte le nostre malattie, diventa realistico. A quel punto il mondo sarà davvero un posto diverso.
L’ultima moda è la stampa 3D. Cosa riuscirà a fare per allora?
So di stupire ma, organo dopo organo, potrebbe riuscire a stampare animali viventi.
Accetto l’iperbole solo perché lei profetizzò esattamente la fine di Blockbuster, il gigante del noleggio di cassette. Come consumeremo i media tra due lustri?
La conoscenza sarà ingerita, ingoiata, arriverà nel nostro cervello attraverso il sistema sanguigno. Non è un’iperbole. Ciò non significa che guardare o ascoltare perderà il suo appeal di intrattenimento.
E come studieremo? Piattaforme online come Coursera avranno al meglio su Harvard?
Coursera no, perché nonostante la prevalente gratuità ha fatto l’errore di partire come un’impresa per fare profitti. La sua concorrente EdX invece potrebbe mangiarsi i propri sponsor, tra cui il mio Mit, Harvard, Berkeley e altri, ma solo quanto a efficienza dell’insegnamento. Ciò che immagino è che assisteremo a un abbandono del modello tradizionale di lezione in classe e le università diventeranno piuttosto il luogo della concezione di nuovi format di apprendimento.
Crede che per allora ci sposteremo da un luogo all’altro con le auto senza pilota che stanno testando sulle strade della California?
Credo piuttosto che saranno capsule senza pilota. La maggior parte della gente vivrà in città. Nessuno sotto i trent’anni vivrà più nei suburbi, come succede oggi. E queste capsule, come navette automatizzate, costituiranno una fetta di mobilità maggiore di quella che riusciamo a immaginare oggi. Ma non escluderei neppure qualche specie di teletrasporto.
Altri cambiamenti importanti?
Stampare il cibo, soprattutto la carne. Abbiamo assistito ai primi esperimenti, ma su quel terreno ci saranno sviluppi enormi.
Uno dei tormentoni della Silicon Valley è disruption, ovvero cambiamento radicale, una specie di distruzione creatrice shumpeteriana. A quale tipo dovremmo dare il benvenuto e a quale tentare di resistere?
Accogliere tutti quelli che eliminano la povertà e resistere a tutti gli altri che ripropongono forme di nazionalismo.
Quella del 2024 sarà una società meno diseguale o internet, che tende a premiare spropositamente il vincitore a scapito di tutti gli altri, renderà il dislivello tra chi ha e chi non ha ancora più profondo?
Dal mio punto di vista l’unico dislivello davvero importante è quello che separa i due miliardi di persone che stanno peggio da una vita piena e dotata di senso. Se il gap tra me e Bill Gates dovesse crescere, per dire, mi preoccuperebbe assai meno. Tuttavia una ricchezza assoluta concentrata in un così piccolo numero di persone non ha senso quando tanti non hanno niente. Piketty la spiega attraverso la tecnologia, in quanto parte costitutiva del capitale (il cui ritorno, storicamente, risulta maggiore della crescita economica). Per me invece non è questione di tecnologia. Anzi, per come la vedo io, la tecnologia è il mezzo per una migliore istruzione, in un contesto in cui la connessione diventa un diritto umano”. Il guru settantenne, che vuole portare un computer portatile a ogni bambino del mondo, non ha perso niente del suo tradizionale ottimismo.
Riccardo Staglianò da repubblica.it