stampante 3d gigante per caseEmergenza case: e le se stampassimo in 3D?

“Il progetto è ispirato dal potenziale ma anche dal bisogno legato alla scarsità di case a livello globale, un tema presente anche nelle economie più mature negli Stati Uniti in Europa” racconta Fabian Jean-Baptiste a Fast Company.

Chi è? Un imprenditore. Ha fondato l’azienda londinese Cnstrctn. L’obiettivo è stampare abitazioni low cost in 3D per dare un tetto alle centinaia di milioni di homeless. Ma anche, come spiega appunto nella battuta di apertura, per intervenire cicatrizzando le ferite aperte nelle periferie di mezzo mondo, a Parigi come a Roma, infuocate anche e soprattutto dalla lotta per la casa. Quasi sempre territorio d’illegalità, soprusi e occupazioni abusive.

Se ne parla da anni, della possibilità concreta di stampare abitazioni. Ci sono progetti, penso per esempio a Wasp o all’impresa dello studio olandese Dus ad Amsterdam ribattezzata 3D Printed Canal House, che stanno facendo passi da gigante e sui quali riporre qualche aspettativa. Eppure la domanda rimane: quanto è sensato proporre soluzioni del genere, in questo momento storico, soprattutto quando ciò che si ha in mano sono poco più di 5mila dollari raccolti su Kickstarter – parlo di Cnstrctn – e ne mancano all’appello 495mila?

Mi spiego. I vantaggi nell’uso della stampa 3D – sia realizzando pezzo per pezzo che in un’unica operazione, come vuol fare Jean-Baptiste – sono moltissimi. Dai costi più bassi alla necessità di movimentare meno materiale fino alla composizione delle stesse materie prime. Ma allora perché queste metodologie non si sono ancora imposte come standard? Per quale ragione le banlieue delle metropoli di tutto il pianeta, dove la gente si scanna per un tetto, ancora non pullulano di questi “grossi ragni” impegnati a sfornare pareti da assemblare in poche ore o addirittura a edificare, strato su strato secondo la tecnica del countour crafting brevettata alla Southern California University, un piccolo appartamento monofamiliare?

La domanda non è provocatoria. Anzi, è serissima. Soprattutto in un Paese come il nostro da sempre alle prese con una politica di edilizia popolare fallimentare e una situazione sempre più allarmante legata al numero dei senzatetto (solo a Roma quasi 4.000 persone). Perché assessorati, dipartimenti, spinti magari dai ministeri, non prendono seriamente in considerazione progetti come WikiHouse 4.0, anche questo britannico. Sono forse meno seri delle casette aquilane? Non appartengono in ogni caso a un’idea allargata di smart city, cioè di città che siano in grado di rispondere in tempi rapidi e a basso costo alle esigenze basilari dei suoi cittadini?

La risposta è probabilmente duplice. Da una parte queste proposte, al netto dell’entusiasmo che ciascuno di noi vi ripone, sono spesso acerbe. Magari non sono utilizzabili su larga scala, hanno tempi di produzione lunghi (mai quanto certi cantieri bloccati da anni) o sono in attesa, anzi alla ricerca, di ulteriori finanziamenti per finalizzare le tecnologie aumentando velocità e dimensioni di stampa o fare il salto dallo stadio prototipale.Per poter insomma fare sul serio.

Dall’altra c’è l’evidente volontà di non voler neanche lontanamente prendere in considerazione certe soluzioni innescando un circolo virtuoso che spinga e sostenga questi nuovi paradigmi edili. Non che i disastri di Tor Sapienza a Roma o di Giambellino a Milano possano risolversi da un giorno all’altro mettendosi a stampare una villa Asserbo dietro l’altra, sul modello dell’ecoabitazione costruita un paio di anni fa poco vicino a Copenhagen (e perché no poi?). Ma certo qualche tentativo, in particolare nel tribolato mondo dei senzatetto o di quelle terre di nessuno (anzi, di mafia) che sono i campi rom, si potrebbe mettere in campo.

Simone Cosimi da Wired.it

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